“L'architetto è colui che cerca di mettere insieme cose distanti fra loro”
Nel 1967 Aldo Rossi convinse Ludovico Quaroni a raccogliere in un unico testo diversi scritti tutti inerenti la città, “La Torre di Babele”, testo rizomatico ma allo stesso tempo unitario, fondamentale per chiarire una delle originali e sperimentali posizioni della cultura architettonica italiana all’interno del dibattito sul progetto urbano degli anni ’60 e ’70.
In questo scritto tenterò di evidenziare alcuni temi tracciati da Quaroni, attraverso un confronto dialettico fra i testi che compongono “La Torre di Babele” e i progetti, e di chiarire l’originalità delle sue posizioni, in particolare mettendole a confronto con le teorie di Aldo Rossi tracciate in ”L’Architettura della Città”, del 1966, e le teorie di Samonà in “L’Urbanistica e l’avvenire della città”, del 1959, inquadrando queste posizioni all’interno del dibattito internazionale sulla città.
Quaroni precisa all’inizio del libro che i vari testi che lo compongono contengono tutti il medesimo argomento di fondo, il problema del “disegno” per la città moderna, cioè della necessità e della possibilità di “ridare figura ed espressione di forma” alla metropoli attraverso nuovi strumenti progettuali. I vari scritti non hanno nessun carattere antologico, ma sono “capitoli di un discorso unitario […] non quindi frammenti uniti dalla personalità dell’Autore ma momenti di un vasto progetto […] un’opera quasi sistematica nella sua complessità” (1).
Nell’introduzione Aldo Rossi definisce l’immagine della Torre biblica come ambigua:
“da un lato vi è il disordine delle istituzioni e la perdita del significato comune nella confusione delle lingue e dall’altro l’interesse per un disegno più vasto, più complesso, persino contraddittorio e confuso, della realtà e della costruzione […] (la Torre) è l’allegoria di uno sforzo secolare dell’umanità per costruire la razionalità in tutti suoi aspetti”.
Questo simbolo rappresenta dunque nel testo di Quaroni la complessità di ogni discorso sull’urbano: nessun ragionamento compositivo è lecito senza una cosciente riflessione sugli strumenti di attuazione, normativi e politici. Quaroni applica però questa necessità di realtà a visioni utopiche di un possibile futuro; evita dunque posizioni di cieca appartenenza ideologica, prende dell’utopia solo ciò che permette di tornare verso la realtà del presente, cosciente che l’architettura è una disciplina positiva: l’architettura deve dare soluzioni, non può permettersi di guardare il mondo con eccessivo nichilismo, di limitarsi ad evidenziare la crisi e i difetti della società, o di accettare un unico punto di vista ignorando la complessità.
La Torre è “paradigma non tanto dell’ovvia impossibilità di pervenire ad una forma unanime e condivisa di progetto, quanto della vitale immanenza del progetto collettivo”. Il titolo stesso esprime complessità e disordine, temi rafforzati dalla citazione di Henry Miller posta all’inizio del libro: “Confusione è una parola inventata per indicare un ordine che non si capisce”. Il libro non è però un elogio al caos, ma rappresenta possibili soluzioni alla “bruttezza” della città moderna e al perenne stato di crisi, iniziato nel dopoguerra ed esasperato dalle tecniche di speculazione edilizia dei costruttori italiani, strumenti costituiti dalla degenerazione delle teorie elaborate dal Movimento Moderno. Manfredo Tafuri inizia il suo libro su Quaroni scrivendo:
“E’ qualche tempo, ormai, che i termini di continuità e di crisi hanno cominciato a perdere gran parte del loro significato nell’ambito della cultura architettonica italiana. Non che i problemi che vengano sintetizzati da quei termini abbiano perso interesse agli occhi dei critici o degli architetti: tutt’altro, ché mai come in questo momento, anzi, essi appaiono più attuali; ma ciò che si sente invecchiato, ciò che si valuta come appartenente ad un dibattito superato, legato a schemi interpretativi e a canoni espressivi propri ad un capitolo chiuso o che sta per chiudersi, è la maniera di impostare una problematica quale quella, appunto, della crisi e della continuità, tipica della cultura dell’immediato dopoguerra con i suoi lunghi e non poco pesanti strascichi”.
Nel testo Quaroni definisce l’Architetto “colui che mette insieme cose distanti fra loro”, operazione che presuppone l’esistenza di opposizioni e di contrasti. Tafuri riconosce al maestro di aver insegnato il riconoscimento della realtà della contraddizione, del senso e del valore di ogni situazione contraddittoria.
“Assumere su di sé la contraddizione, che è del mondo e della società, caratteristica e dramma del momento storico in cui siamo immersi, significa in sostanza obbligarsi ad una coscienza sempre viva del presente, significa non permettersi nessuna idealizzazione nell’azione come nel pensiero, significa non riporre le proprie speranze o le lotte che si compiono in nome della società, in un rimando più o meno idealistico ad un imprecisato e catartico futuro”.
Spesso i discorsi quaroniani hanno come sfondo una problematica contraddittoria, nascono da sequenze di opposizioni, di contrapposizioni diacroniche, che hanno però sempre un riscontro in un preciso momento progettuale, intendendo quindi la contraddizione stessa come un principio positivo, un metodo per generare idee.
I testi che compongono “La Torre di Babele” , proprio per loro natura, non costituiscono una precisa sequenza logica, e affrontano diverse tematiche, sintetizzabili in coppie di termini contrapposti. Le principali contrapposizioni che ho tracciato come linee guida per l’analisi del testo quaroniano sono:
- necessità della forma / necessità del potere;
- antichità / modernità;
- urbanistica / architettura;
- ordine / variazione;
- utopia / realtà.
Necessità della forma / necessità del potere
Nel primo capitolo, “Necessità e possibilità, da parte dell’architetto, del controllo della forma della città”, vengono messe a confronto le necessità del potere con la necessità della forma, obiettivo che l’architetto deve rivendicare per far diventare “bella” la città. Quaroni critica non tanto i metodi della politica, quanto la rinuncia operata dall’architetto, e la necessità di operare il controllo della forma urbana, cercando di esplorare metodi che tengano conto delle necessità della società e della politica stessa. La contrapposizione fra lo spazio fisico della città e le strutture sociali, economiche, politiche, religiose, rappresenta la contrapposizione fra l’architetto e il potere. Questa lettura della realtà pone l’architetto di fronte ai propri limiti, e alla impossibilità di influire sulla realtà senza il necessario consenso. Nella contrapposizione fra la città fisica, intesa come rappresentazione formale della città stessa, e la città sociale, strumento nelle mani del potere, la vera specificità dell’architetto per Quaroni risiede nella creatività, la capacità di controllo della forma urbana. La cultura architettonica è “volontà di ordine, d’organizzazione, di spazio, di forma”, e l’architettura nasce proprio dal rapporto fra committenza e architetto, fra “principe e artista”. La necessità della città fisica e della forma urbana, elaborate attraverso il disegno, sono le condizioni di base per l’esistenza dell’architetto, e della città, “La città sociale non potrà mai essere se non in uno spazio”.
La costruzione e il controllo della forma sono quindi per Quaroni le uniche vere specificità dell’architetto, raggiungibili solo attraverso il disegno:
“l’azione di disegno è il continuo alternarsi di formulazioni di ipotesi, di presupposizioni, e della loro verifica su un altro grafico di tipo differente o a scala diversa, maggiore o minore, spesso maggiore e minore. Disegnare è cercare una struttura che permetta il coordinamento”. Il disegno è inteso come “senso creativo”, scrive Quaroni: “il nostro disegno, quindi, non si limita alla rappresentazione grafica d’una idea, ma è l’idea stessa”.
La costruzione della forma è per Quaroni dipendente dal segno, ma non si conclude in esso, il segno è sempre espressione di un’idea.
In Quaroni la forma non si esaurisce in se stessa, ma allo stesso tempo non possiamo dire che si costruisca automaticamente attraverso l’elaborazione di un processo compositivo. Spesso assume connotati simbolici, evocativi di un mondo legato alla romanità, quasi come fossero dichiarazioni di appartenenza, ma ciò che più interessa capire è il metodo logico razionale con il quale i progetti quaroniani tentano un compromesso fra la costruzione di una forma e la realtà legislativa necessaria alla loro concreta realizzazione. La forma non nasce come conseguenza di una serie di operazioni, in modo diagrammatico, ma subisce deformazioni in base ai diversi metodi realizzativi.
Se analizziamo il progetto per il quartiere Casilino a Roma possiamo notare come questo presenti un forte rapporto tra leggi formali, compositive, e leggi costruttive, tali da permettere la sua corretta ed efficace realizzazione.
I suoi progetti hanno una figuratività derivata dall’opposizione tra l’intenzione di costruire un’immagine sintetico-simbolica e la necessità di elaborare un metodo normativo di controllo dei vincoli. I progetti elaborati sono tutti composizioni “aperte”, indicano alcune direzioni che i progettisti dei singoli edifici dovranno seguire, impongono quindi una forma generale, ma non si esauriscono in questa. Le idee formali e le ipotesi normative si modificano insieme. Le diverse ipotesi sono basate su differenti concezioni plastiche, da realizzare con diversi vincoli. I principi compositivi usati, come scrive Antonino Terranova nel testo “Norma e forma” sono “la radialità policentrica e l’espressione della centralità gerarchica sia in pianta che in alzato” . La forma delle varie proposte presenta caratteristiche genetiche diverse: la prima si costruisce attraverso edifici sinuosi che creano spazi urbani attraverso il movimento dei volumi; la seconda deriva dalla prima, ruotando senza regolarità cinque o sei edifici di pochi piani in modo da formare corti semiaperte, contrapposte agli spazi tra le case dritte; la terza si compone di sei edifici a molti piani che si aggregano dando vita ad una strada e due giardini; il progetto realizzato si basa invece su una composizione a ventaglio di ventinove elementi che fanno perno su quattro centri e confluiscono verso una cavea verde aperta. Le proposte affrontano leggi compositive diverse, ognuna delle quali è corredata da un apparato normativo che ne permette la corretta realizzazione. Ad esempio la prima proposta possiede un forte carattere unitario, ma la sua composizione unitaria prevede l’affidamento dei lavori ad un’unica società, condizione irrealizzabile in quel preciso contesto. La proposta realizzata invece si compone di edifici diversi, tutti appartenenti ad un unico sistema, affidati ognuno a una società diversa. Parlando della soluzione finale Franco Purini nel saggio “Una delle rêverie più forti che io conosca…” scrive, riprendendo alcuni concetti presenti nella relazione tecnica scritta dallo stesso Quaroni :
”Il Casilino, una sorta di sogno piranesiano materializzato in un iperbolico Colosseo di cui rimangono le ossa gigantesche disposte sul terreno”.
La costruzione della forma, e dunque il disegno, rappresentano la vera specificità dell’architetto, il cui vero compito per Quaroni è di “esercitare il controllo della città fisica”.
Per far questo l’architetto deve essere in possesso di un metodo di controllo sulla forma, ma deve anche essere organizzato, e soprattutto deve essere chiamato ad operare, deve quindi accettare la propria condizione di dipendenza dal potere, deve, sia per Quaroni che per Tafuri, “impadronirsi del potere”.
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